A Love Supreme. Incantamenti metropolitani
Ma poi entra lei. Che ha capelli ricci e rossissimi ed è la seconda cosa che penso. La terza cosa che penso è che è uguale a Violet Baudelaire, ma da grande. La prima cosa che penso – e che non smetto di pensare durante la seconda e la terza – è che lei è bellissima.
Mentre faticosamente fingo di non guardarla, lei si piazza proprio davanti a me e inserisce lo sguardo fisso altrove. Che è quella specie di scudo che usano a volte le ragazze o le donne in metropolitana, specie se attraenti. Il suo sguardo fisso altrove è sui toni del grigio e del verde ed è perfetto. Perfetto per attirare la mia attenzione.
Ma c’è qualcosa che mi stordisce ancora di più. Ha le cuffie ed è così vicina che riesco a sentire cosa sta ascoltando.
Cazzo. Ascolta Coltrane.
Lei. Sta. Ascoltando. Naima.
Uno dei temi più belli e magici di sempre. Che John dedicò alla moglie.
Estraggo l’iPod e mi metto a srotellare. Ce l’ho anche io, quella Naima lì. Voglio raggiungerti, rossa. Voglio entrare in paradiso un momento con te, prima che tu scenda. Uniamoci ora qui sul metro. Almeno musicalmente intendo.
Indosso le cuffie un po’ lasche, come le ha lei, in modo che ne esca il suono. Metto Naima e non contento di sentire il tenore coltraniano che mi accarezza i timpani, voglio che siamo unisoni. Io e la rossa, sì. E John galeotto sullo sfondo. Voglio che la nostra Naima sia una sola, sincronizzata come fossimo un solo paio di orecchie. Voglio che ci proviamo, anche se lei non lo saprà mai. Forse. E così, smanetto e ascolto e srotello, finché magicamente le nostre cuffie trasmettono insieme la stessa magia in perfetta sincronia.
Intanto la metro si è svuotata e forse anche la mia fermata è passata ma ora non m’importa. La rossa però improvvisamente sgancia lo sguardo dal suo altrove e lo punta su di me. Si scosta un auricolare e ascolta. Sente Naima doppiamente stereo, unita e incatenata solo per noi due. Il vagone è vuoto. Lei sorride ed è un lampo grigio verde. Io capisco che lei ha capito e sento che vorrei, dovrei scappare. Ma lei mi indica, sorride, scuote la testa vagamente incredula e in quel momento si aprono le porte della metro ed entra un giovane col chiodo, tutto borchiato e piercingato, che si agita al ritmo di una musica che non capisco da dove viene ma Naima non c’è più e lui ha un orologio al collo e si mette a ballare oscenamente davanti alla rossa che non sorride più e la musica che rimbomba sempre più forte e lui sghignazza e lei la vedo che ha paura ma non posso parlare perché la musica è troppo forte e quella musica porca puttana è proprio quella lì.
Guardo il soffitto.
Spengo la sveglia.
Scendo dal letto.
Le mutande rosse
“Il mio nonno Battista, che qui lavoro non ce n’era e se ne andava in giro in Slovacchia e Ungheria a fare il minatore. E gli alberi li tagliavano d’inverno, e uscivano al mattino con una gamella di brodo ghiacciato. E qui avevamo un campo che dava patate e orzo che qui grano se ne è sempre visto poco. E una mucca, una capra e un maiale.
E poi Battista è andato a fare il minatore nel Minnesota.
Era sposato con la nonna Viola che era nata nel 1871. (Vedi oltre per i figli).
Quando è nata la Lina (1894 il Battista era già in America che lì stavi 40 giorni su un’isola quando arrivavi per toglierti tutto lo sporco del viaggio, ma soprattutto i pidocchi e le malattie).
E poi un giorno arrivavano e dicevano “Abbiamo bisogno di 1000 minatori in Minnesota, chi vuol venire?” E lui viveva così. Ed è stato lì 6 anni, mandando a casa i soldi.
E la Lina, primogenita, a 5 anni ogni mattina andava alla fontana con le donne del paese a lavare. E un giorno mentre lavava ha detto: “La mia mamma stanotte ha dormito con un uomo con le mutande rosse”. E le donne del paese ma va là, ma cosa dici il Battista l’è in America e la Viola è una donna perbene. Però poi tra loro chissà cosa pensavano e iniziavano a chiedersi chi fosse quello là con le mutande rosse. E nei paesi, si sa, le voci girano. Ma tra quelle donne ce n’era una che si chiamava Zaiga che andò su in casa dalla nonna Viola e le disse più o meno: “Senti Viola, tu nel tuo letto fai quello che vuoi ma stai attenta che tua figlia ti vede e stamattina alla fontana ha raccontato che hai dormito con uno con le mutande rosse.”
E a quel punto dalla camera da letto è uscito il nonno Battista, con le mutande rosse. Che era tornato proprio quella notte dall’America con su quei mutandoni lunghi e antichi tipo quelli dei cowboy. Hai mai visto “Quella casa nella prateria”? Lo danno dopo pranzo su Rai3 e il papà della famiglia ha proprio quelle mutande lì, una salopette lunga e rossa che poi ormai quello del Battista era un rosso tutto scolorito quindi una specie di rosa, con la bottoniera proprio qui che è dove gli uomini fanno la pipì.”
“Il soldato col braccio… infetto fino al soffitto”
Storie nere di Nonna Nena: la scapola dello scheletro
“Una volta sono scesa nei sotterranei della mia scuola, che era l’Accademia di Brera [siamo a Milano negli anni ’50] e lì sotto c’erano ancora i resti di una chiesa e di un convento. E sotto le volte c’erano tutte queste ossa di frati morti, vissuti centinaia di anni prima, magari nel 1200 o giù di lì. E siccome dovevo disegnare uno scheletro allora ho pensato che potevo copiarlo dal vivo. E mi sono portata via, di nascosto, una scapola. (Segue spiega alla settenne che sta mangiando un biscotto, di cosa sia e dove stia la scapola).
Poi, dopo che l’ho copiata sul mio disegno di compito, non sapevo più cosa farmene di ‘sta scapola e allora… siccome aveva una forma adatta ho pensato: “Diventerà un posacenere!” Ma mia mamma… [Nonna Dina, detta Nonna Temporale per motivi che sarò divertente raccontarvi] eh, avresti dovuto sentirla.
Una sera, a casa, appena ho appoggiato la sigaretta accesa sulla scapola, si è sprigionato quel puzzo di… hai presente quando bruciano dei capelli o le unghie? Ecco, e mia mamma mi ha ordinato di buttar via SUBITO quello strano posacenere. E io che non avevo mica il coraggio di riportarlo nelle segrete dove l’avevo trovato (per paura che mi beccassero e poi ci voleva del fegato a tornare là sotto…), allora l’ho portato al museo tal dei tali dicendo che l’avevo trovato in giro. E così lì l’hanno esposto in una teca. E in definitiva, escludendo la parte della storia in cui è stata bruciacchiata, alla fin fine ‘sta scapola ci ha pure guadagnato…”
Sogni di Viola: l’autobus con le celebrità
– Viola, mi ripeti il sogno che hai fatto e io provo a scriverlo velocissimo sul computer nel tempo che tu me lo racconti?
– Allora io spesso sogno che c’è tipo un autobus e tipo è pieno di celebrità, tu sai cosa sono vero?, ma questa idea mi è venuta che visto che è così che quando sogno anzi sogno sempre di essere una ragazza di 16 anni più o meno che si chiama tipo Alice o Miranda o un nome così…
Quindi stavo andando al ballo sull’autobus con Matteo P. e LaFlavia e a un certo punto c’erano anche dei tizi oltre all’autista e poi c’erano altri tizi, tanti tizi e sono arrivate anche delle celebrità e abbiamo dovuto far diventare l’autobus già grande molto più grande con tipo una cosa del telefono, che però non è un telefono e che si usa per allungare il telefono, che esce fuori una tastiera e tu scrivi quello che vuoi, poi a un un certo punto c’erano i bagni che però non c’erano i bagni ma siccome eravamo sull’autobus erano delle bottiglie, perché c’è questa tastiera come quella di un telefono che se tu vuoi comparire qualcosa lo scrivi su questa tastiera e quella cosa compare.
Così io ho fatto apparire delle altalene e quindi ero sull’autobus con i Blink182, i Greenday e i Beatles, papà ma sei riuscito a scrivere tutto?
Olio di palma e sostenibilità
L’altro giorno sono andato a un incontro organizzato dall’Unione Italiana per l’Olio di Palma Sostenibile e nella mia beata ignoranza ho scoperto che la questione è parecchio complicata, come già avevo verificato leggendo Wired e IlPost.
Non si trattava però di un confronto tra pro e contro ma di un incontro tra l’Associazione e stampa e media e blogger, quindi in buona sostanza non era un dibattito con entrambe le opinioni in campo.
Che prima ancora di essere questione di salute e sostenibilità sia una questione di lobbying forse ci si poteva arrivare.
Ecco le cose che non sapevo. Il successo clamoroso dell’olio di palma in questi ultimi anni è dovuto al fatto che costa poco e sostituisce grassi necessari, più costosi e non necessariamente più sani. Sul tema della salubrità, la soluzione sembra essere la solita: attenzione nelle scelte, moderazione in tutto, variare la dieta.
Il suo impatto ambientale è minore rispetto ad altri olii vegetali (poca acqua, pochi fertilizzanti, pochi insetticidi). Però nessun orango era presente e ha preso la parola per smentire l’assunto.
Attenzione al palmito. Quello è davvero meno sano.
In Italia il settore alimentare pesa solo per il 20% nell’importazione di olio di palma. L’incremento altissimo degli ultimi anni, che ha aumentato l’allarme deforestazione perché in Indonesia e Malesia, fuori dal perimetro delle coltivazioni sostenibili, il rischio c’è eccome, è dato dalle altre industrie: carburante e cosmesi in particolare.
Chi come Plasmon sceglie di fare prodotti palma-free fa una scelta – non di salute e prevenzione ma – di marketing e lo dichiara (“altrimenti a quel target non avremmo mai più venduto biscotti”).
Lo studio di EFSA che ha fatto tanto scalpore riguardava tutti gli olii ma in Italia, stampa e opinione pubblica hanno amplificato i guai del palma.
La soluzione? Nella sostenibilità delle coltivazioni. Nella chiarezza delle informazioni in etichetta. Nella sensibilità di un consumatore consapevole, attento e informato. Sono tre elementi in costruzione, su piani diversi. L’ultimo in Italia è praticamente una chimera.
In buona sostanza c’è un discorso di lobby. Attualmente i pro-palma sono sotto i riflettori, sul banco degli accusati via, e vengono dipinti molto peggiori quello che sono, grazie all’attacco degli anti-palma che fa leva in modo più o meno consapevole su una stampa sensazionalistica e su un’opinione pubblica disinformata, ansiogena e un po’ boccalona. Il che è piuttosto tipico italiano.
L’incontro si è aperto con una dichiarazione del prof Carlo Alberto Pratesi che suonava così: “Anche negli anni ’80 in Usa, il palma fu oggetto di crociate e sollevazioni popolari, orchestrate quella volta dai produttori di olio di soia”.
“Quindi per capire chi ci sta facendo la guerra al palma basta vedere chi ci guadagnerebbe se il palma perdesse quote, quindi quelli che lo seguono nella spartizione attuale del mercato?” Questa è stata la mia unica domanda. La risposta arrivata tra le righe suonava come un sì, forse. Ma è troppo presto per capire.
Se tanto mi dà tanto, queste cose hanno tempi lunghi.
Prevedo che in un evento in USA per stampa e blogger approssimativamente nel 2046 verrà svelato chi in Italia nel 2016 mosse guerra al palma.
Ho sognato Hedy Lamarr
Ho sognato Hedy Lamarr.
Io ero al pianoforte, vestito da scienziato.
Hedy trafficava a un tavolo, con cavi e transistor.
Stavamo rivedendo la sua famosa invenzione, quella per comandare i siluri verso le navi nemiche. L’idea stavolta non era militare: era quella di indurre a distanza l’Estasi. Sí, avete inteso bene. L’avremmo chiamata con il titolo del suo film più famoso. E questo ci avrebbe dato un decisivo volano pubblicitario (anche sui social).
L’idea ci era venuta leggendo insieme un fumetto di Milo Manara.
Il sogno era in bianco e nero (1940 circa).
Io ero al piano, vestito da scienziato, suonavo Cole Porter,
Lei era in piedi, svestita da scienziato.
Indossava solo un blocco di appunti e una matitina dell’IKEA.
Coming out: le mutande del nonno
Mio nonno paterno si chiamava Igino con la I davanti, e quando si incazzava diceva porcomondo. Se n’è andato nel 1973 quindi ci siamo incrociati davvero per poco ma in qualche modo l’ho portato con me molto a lungo.
Il nonno Igino era altissimo, aveva un fucile da caccia, un carretto e un negozio a Belgioioso in cui vendeva sementi e biancheria intima.
Ora, nessuno sa esattamente il perché di questo strano accoppiamento merceologico. A me piace pensare che anche i suoi genitori fossero ambulanti come lui da giovane, uno di sementi e l’altro di maglieria, e che lui avesse ereditato entrambi i banchi al mercato e poi in età avanzata avesse riunito tutto il business in un’unica minuscola bottega. Che io ricordo perfettamente, freschissima e ombrosa d’estate. Con i sacchi bianchi delle sementi posate in terra e il bancone col vetro contenente le scatole di cartone beige e verdine con maglie, calze e mutande.
Quando il nonno morì, mio padre chiuse la bottega ovviamente. Regalò o vendette o smaltì chissà dove le sementi e portò a casa nostra a Pavia le scatole di biancheria.
Tutte.
La mia famiglia, composta di solo due adulti e due bambini, si trovò dunque attorno al 1973 in possesso di un quantitativo di maglie e mutande atto a soddisfare le esigenze di un reggimento dell’esercito. Ovviamente era un peccato gettarle. Erano tutti capi nuovi, non sarebbero certo andati a male, c’erano tutte le misure utili.
Ma poi figuratevi se io bambino mi interessavo delle mutande che indossavo. Erano quelle, punto. Ragno o Cagi, i tipici mutandoni fantozziani, rigorosamente bianchi, attillati, con i fianchi alti e l’asola centrale per estrarre prontamente il pistolino. Attraversai serenamente l’infanzia fino all’adolescenza, dunque, senza il minimo disagio.
Poi però arrivò la prima liceo.
Gli slip si erano già diffusi e insomma nello spogliatoio, tra le occhiate di disgusto e lo scherno bonario di tutti, eravamo rimasti solo io e Vincenzo a vestire i mutandoni.
Vincenzo però pesava 85 chili, veniva da un paesino, era figlio di contadini e non aveva palesemente alcuna esigenza di look.
Il giorno in cui in quello spogliatoio della palestra del Liceo Copernico, il più figo della classe 1a A, Massimiliano, si tolse i pantaloni (come Nick Kamen nello spot Levi’s) e rivelò un paio di inediti, inusitati, boxer tinta pastello a fiorellini, il tempo si fermò: tutti lo guardarono con ammirazione e si sentirono a disagio nei loro slippini monocromatici e strizzapalle.
Vincenzo non fece una piega ché in campagna il tema non era così sentito.
Io mi sentii a disagio al quadrato perché, mutandato come il campagnolo, ero già indietro di ben due tornate dell’evoluzione del costume dell’intimo. Speranzoso che presto, prima o poi insomma, anche l’altra metà del cielo mi avrebbe visto in intimo, capii che non potevo continuare a indossare le mutande acquistate dal mio avo circa 15 anni prima.
Andai a casa e chiesi con fermezza a mia mamma di acquistarmi delle mutande contemporanee.
In fondo, già da due anni, erano iniziati gli anni ’80.
Camping Mon Perin: bello il posto, bellissima la storia
C’era una volta in Istria, un bellissimo litorale naturale che rischiava di essere trasformato in una moderna riviera fitta di alberghi, appartamenti e stabilimenti balneari e la sua ovvia strada statale per portare il turismo. Tanto turismo. Forse troppo turismo.
Per fortuna è andata in modo diverso, molto diverso.
Non ero mai stato in Croazia, né in Istria e questa storia mi incuriosiva. Così qualche settimana fa, complice un weekend di ponte, ho preso la macchina, ci ho stipato la famiglia e li ho portati a Mon Perin. Per la precisione al Camping Mon Perin, vicino al paesino di Valle, a metà strada tra le ben più rinomate Pola e Rovigno.
Noi (purtroppo, per ora) non siamo veri campeggiatori. Siamo cittadini piuttosto viziati, quindi ci siamo sistemati in un bungalow. Che però era una meraviglia e stava esattamente a metri 15 dal mare. Qualche campeggio e villaggio turistico italiano l’avevamo frequentato in passato. Quanto basta per renderci conto che a Mon Perin è tutto molto diverso.
Il camping si snoda lungo tutto il litorale, sono 9 chilometri di costa, quindi manca un vero centro villaggio, quello in cui tipicamente c’è il palco per gli spettacoli e l’animazione e io il primo giorno vado subito a verificare quando è “la serata del dilettante” perché noi famiglia musicale cogliamo al volo le occasioni di nuovi pubblici, specie se internazionali.
Ma qui a Mon Perin non c’è nulla di tutto questo. Non ci sono il palco per gli spettacoli, non ci sono una o più mega piscine, non c’è il mega supermercato che ti fa sentire in città, non ci sono gli animatori che ti requisiscono i figli con la scusa di farli divertire, né i personal trainer che solitamente ti fissano la pancetta in quel modo che tu ti senti un po’ in colpa e non puoi evitare di fare almeno un paio di lezioni di acqua gym. Almeno a me capita.
A Mon Perin tutto questo non c’è.
In compenso c’è un mare che è una meraviglia, specie per gente come noi che è abituata a quello del litorale ligure, ecco. Poi c’è il senso di una natura rispettata. Le piazzole per tende e roulotte sono ampie e sempre circondate dagli alberi del bosco. I bungalow, di qualunque tipo, dal più basico al più accessoriato, sono ben dislocati in mezzo agli alberi. Il nostro poi, forse anche perché era un Exclusive, era particolarmente “imboscato” come posizione. Nel senso che i vicini distavano 20 o 30 metri. Abbiamo passato un paio d’ore a suonare e cantare in veranda, per dire, senza molestare le orecchie di chicchessia.
E poi era proprio una casa, il nostro bungalow, non una di quelle casette in cui se scendi troppo in fretta dal letto ti trovi nell’armadio o direttamente nella stanza accanto. In quattro ci si stava più che comodamente, grazie anche a una veranda davvero enorme.
A Mon Perin poi ecco non è che siete abbandonati nel bosco, sensazione in sé tutt’altro che fastidiosa: ci sono 4 ristoranti dove si mangia più che bene a prezzi decisamente moderati, un bar, un mini mini market. Noi ci siamo stati a fine aprile quindi in bassissima stagione e quindi in mare abbiamo solo pucciato i piedi (e ci è rimasta parecchia golosità estiva ovviamente), ma le mie figliole per esempio hanno passato un pomeriggio a cavallo. Immersioni e gita in barca, anche quelle invece rimandate alla prossima volta, causa – ah sì – causa maltempo. Non siamo stati fortunati ecco. Ha piovuto e abbiamo preso un discreto freddino. Tanto che nel bungalow abbiamo tenuto acceso il condizionatore sì, ma per il riscaldamento. Così ne abbiamo approfittato per scoprire qualche posto nei dintorni con gite a Rovigno e Valle.
E proprio a Valle, abbiamo chiacchierato con l’assessore al turismo che ci ha raccontato il resto della storia. Che è il lieto fine di questo post.
Di fronte alla prospettiva della cementificazione imminente, il paesino di Valle decise di reagire sia per tutelare la propria costa sia per realizzare un progetto inclusivo, della cittadina e dei suoi abitanti. In brave cosa fecero a Valle. Semplice: una lista civica con cui conquistare il governo locale e svincolarsi dal giogo e dal gioco politico dei partiti centrali pro cementificazione. E poi avviarono una forma di azionariato popolare per cui ogni cittadino di Valle potevano diventare azionisti del progetto Mon Perin. Non deve essere stato per niente facile vendere ai cittadini di Valle, un piccolo paesino di campagna con poco più di mille abitanti, una cosa che non c’era. Suggerire a queste persone di diventare in qualche modo mini azionisti di una scommessa fatta sul futuro turistico della zona. Ma questo accadeva qualche anno fa. Ora direi che ce l’hanno fatta. Il litorale è salvo perché il camping lo preserva dalla cementificazione. Valle è diventata l’epicentro di un progetto turistico virtuoso. E il fatto che i bungalow siano già TUTTI prenotati fino a settembre conferma due cose:
1. ripeto: che ce l’hanno fatta a inventarsi questa cosa e il pubblico, i turisti, hanno capito e li premiano (i prezzi sono piacevolmente più bassi che in Corsica o Sardegna).
2. che io e la mia famiglia per tornarci dovremo aspettare l’estate prossima. Oppure provare il brivido inedito di una tenda o di una roulotte.
Vi tengo aggiornati ok?
Addio bella giornata
Oggi era una bella giornata. Ero reduce da un concerto meraviglia, mi sono alzato e ho raccolto spinaci e lattuga (quest’ultima in quantità diciamo come minimo imprenditoriale). Poi Viola appena alzata mi ha mostrato i suoi disegni strabelli e io le ho stampato le parti nuove per violino. Ho parlato con Alice di Elio e di Prince. Poi sono sceso in edicola a comprare Rolling Stones e ho letto il pezzo di Giulia su Prince, che è molto bello e ha un finale, intendo proprio l’ultima frase, ancora più bello.
Poi davanti al mio caffè, al bar del quartiere in un sabato primaverile di sole, ho aperto il Corriere e ho fatto l’errore di leggere interamente le due pagine sulle indagini sulla bimba di Caivano.
E ho detto addio alla mia bella giornata. Mi viene il vomito e non ho voglia di parlare con nessuno.
No, di quella storia lì, nemmeno con voi.