Thelonious Monk Himself – Un libro con il tasto play
In occasione dello spettacolo Misterioso, domani al Teatro Fraschini di Pavia, mi sono convinto fosse buona cosa ricicciare questo pezzo.
Thelonious Monk Himself – Un libro con il tasto play
Dice che scrivere di musica non è difficile. Ma scriverne bene sì. Lo diceva pure Zappa, in una delle sue più celebri provocazioni: “Scrivere di musica è come danzare di architettura”.
Tra i libri sui musicisti non sono molti quelli capaci di portarti davvero dentro la musica. Di fartela sentire, di girarsela tra le righe, smontarla, raccontarla. Stop. Rewind. Play. Ecco, senti qui. Capito cosa sto dicendo?
In molti casi il libro su un musicista è una biografia, minuziosa quanto vuoi, con una discografia inappuntabile. Ma muta proprio sulla musica. Lavoro da storico, da archivista. Tipo il libro di James Gavin Chet Baker, tanto monumentale e dettagliato quanto arido e muto. Un libro senza il tasto play.
Poi ci sono le eccezioni: tra cui alcuni libri firmati da musicisti che sanno usare anche la penna. Laurent de Wilde, pianista francese è uno di questi. E il suo libro su Thelonious Monk (ampiamente citato anche in Misterioso, un recente spettacolo dei maestri Umberto Petrin e Stefano Benni) è quanto di più interessante, profondo e vitale si possa leggere oggi in italiano sul pianista newyorkese. Non conosciamo i dischi di de Wilde né altri suoi testi: difficile dire se de Wilde sia più un pianista che scrive o uno scrittore che suona. Ma chissenefrega. Certamente, almeno su Monk, le cose gli vengono bene: semplici, creative, stimolanti. Mai fredde. E nel suo libro Thelonious Monk Himself, minimum fax, Monk c’è proprio tutto.
Carriera strana quella di Monk. Che nasce a New York, la meta e la mecca di tutto il jazz dell’epoca, ma subito giovanissimo la abbandona. Per due anni se ne sta in giro per l’America ad accompagnare le prediche di un’evangelista. Quando rientra a casa lo troviamo al Minton’s nei primi anni ’40 a fare da ostetrica al bebop. A trenta anni, tardissimo, la prima incisione a proprio nome. E quasi nessuno che se ne accorge. Poi altri anni di incisioni e concerti (ma dieci senza cabaret card per storie di droga e di cattive compagnie), un ruolo di accompagnatore discusso (“Sul mio solo niente piano, grazie” gli disse assai meno cortesemente Miles Davis),l’incontro con Orrin Keepnews e finalmente il successo dopo i quarant’anni. Finalmente i riconoscimenti, i capolavori. Ma attenzione: sono le stesse cose che lui suonava da anni, identiche, brani e stile. Solo che il mondo adesso se n’è accorto. E allora il successo, i dischi della consacrazione, le copertine, i tre periodi (Prestige, Riverside, Columbia), fino agli eccessi dei tour “all star” e poi rapido il sipario. Non un crash in auto, nessuna dose tagliata male, nemmeno delle crocchette di pollo che ti vanno per traverso davanti al tuo tv show preferito. Nessuna fine rapida, da vero maledetto, no. Il declino più lento e tragico di tutta la storia del jazz. Chiuso in una stanza per cinque anni a fissare il muro, pazzo. E genio.
Tutta questa storia, de Wilde non la racconta per bene in fila. La spezza in capitoli tematici (i produttori, il Minton’s, i sassofonisti, le donne, i cappelli), ma mette sempre in primo piano la musica: la sua ammirata e immaginifica descrizione della musica di Monk. È qui che De Wilde – accompagnato dal suo validissimo traduttore Michele Mannucci – preme il tasto play. Monk non è un universo facile, tutt’altro. Ma la passione e il talento di De Wilde lo sanno raccontare. Lo stile per esempio: Monk che suona come un vibrafonista, con le dita tese e un suono percussivo; Monk che usa ghost notes che fanno impazzire chi cerca di trascrivere i suoi voicing; Monk che soprattutto sa “scolpire” il tempo e – nel piano solo – farsi sezione ritmica da sé medesimo.
Prima di lui, lo stile del piano solo era ancorato alla scansione dello stride: la sinistra vola e alterna basso e accordo, la destra è libera di gestire melodia e soli. Tecnica meravigliosa e completa. Che Monk comincia a erodere dall’interno – lui che lo stride ce l’ha nel dna dai tempi del predicatore – sviluppando uno stile ritmicamente più libero. Una libertà che apre la strada a molte successive rivoluzioni e non solo pianistiche.
Perché nel piano solo Monk è uno strano e buffo equilibrista. È un signore grande e grosso che cammina su un filo. Quel filo è il tempo, inevitabile, dritto, necessario. Lui ci va sopra pigramente, guardandosi intorno e grattandosi la testa. Guarda il panorama, legge il giornale. Forse mangia un gelato. O si cambia il cappello. E intanto cammina, dentro e fuori dal tempo. Ogni tanto fa un saltello. Sbanda. Muove le braccia, sembra perduto e quando ti aspetti il tonfo lui si ripiazza saldo coi suoi piedoni sul filo. Monk non ha paura di cadere, non ha paura del vuoto.
E non ha fretta Monk, di arrivare da nessuna parte. Non ha proprio fretta. A differenza dei bopper suoi complici, che fanno le gare e fanno della velocità di esecuzione uno dei loro tratti distintivi. Nei tempi medi delle sue composizioni, c’è tutta la sua indolenza quasi plantigrada.
E de Wilde ci presenta i suoi gruppi, i suoi partner (Charlie Rouse su tutti), ci porta dentro lo studio di registrazione, disegna gli equilibri della sezione ritmica, prende la lavagna e il giradischi e ti spiega la nascita del bebop
E con discrezione entra anche negli affetti di Monk, presentando due donne complementari e indispensabili: prima Nellie, la moglie devota, poi la baronessa Pannonica de Koenigswarter, l’aristocratica “alternativa”. Senza la pazienza e l’umiltà della prima, senza la passione e i mezzi della seconda, chissà che ne sarebbe stato di Monk e della sua musica.
Questa musica sghemba e luminosa, spigolosa e sferica, affondata nel blues ma proiettata altrove. Quella che Monk ha continuato serenamente a coltivare senza fretta, senza rincorrere mai un collega né uno stile, fregandosene di tutto finché non è stato il mondo ad accorgersi di lui. Monk ha scelto il suo spazio, ha piantato la tenda e ha cominciato a lavorarci. Fino a farne la miracolosa, inquietante cattedrale (così Enrico Pieranunzi nella prefazione) che oggi conosciamo. E che grazie al viaggio sonoro di de Wilde possiamo visitare.
Pubblicato su Medicine Show di luglio-agosto 2006.
…
… cioè… uno riposta fiero il suo articolo… e l’unico commento è spam?
Sì sì l’avevate già letto tutti di là, ok mi do pace.
Chissà perchè ti immagino tra pile disordinate di CD e altissime torri di libri sul jazz paurosamente istabili e lattine di Red Bull disposte sul pavimento in un percorso di guerra… vabbè, dai, bello l’articolo!
Liz
Lunedì sera, con lo Spazio pieno di diciassettenni…
Ci suoni qualcosa tipo-Monk?
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