Interismi familiari
Non ero contento io, di vedere la finale di Champions al mare, da solo con un paio di familiari femmine e quindi senza rutto libero e libertà di imprecazione.
Non ero contento, anche perché tutti gli ultimi turni di coppa e partite decisive varie me li ero goduti sul divano del suocero, juventino ma non gufante.
Avevo un po’ paura di rompere questo incantesimo. E poi non avevamo nulla da sventolare.
Il pomeriggio dello scudetto, ho portato Alice a strombazzare per la città. Più che altro per mostrarle quanta gente, il tifo, sono pazzi, i cori, le bandiere ecc. Credevo che come me si accontentasse di quell’osservazione dall’alto, giusto un filo snob. Siamo tifosi, ma elegantemente non ci buttiamo nelle fontane, non sventoliamo enormi vessilli. Guardiamo chi lo fa. Epperò ci diamo dentro col clacson. PE PERE PEEE!
Naturalmente mi sbagliavo. Ha chiesto, come giusto, qualcosa di sventolabile e quel giorno pur di togliersi lo sfizio, ha esposto per alcuni minuti dalla macchina il corpetto giallo fosforescente delle emergenze. “Adesso basta però perchè magari qualcuno crede che siamo del Barcellona…” (che ha la seconda maglia giallissima, ecco).
Il giorno della Champions, poi, abbbiamo battuto tutti gli edicolanti del paese ma gli unici gadget erano: calendario, cappellino e piatto celebrativo. Nulla di vessillabile, nulla di sventolabile.
In vista della serata, le ho annodato una mia maglietta azzurra con una nera, senza dirle nulla.
A 10 minuti dalla fine del match, ha detto che era tardi e che lei andava a letto perché era stanca. Ma ma ma… sollevano la coppa, il capitano, gli abbracci, le lacrime… Niente da fare.
La sciarpa fai-da-te è rimasta inutilizzata e – complice il fresco e il silenzio della riviera – io mi sono addormentato beato prima – e al posto – di qualunque clacson.
La mattina dopo, Alice mi ha svegliato dicendo che erano le 9.45 e che aveva dormito benissimo e che dovevamo andare avanti a leggere il GGG.
Erano invece le 6.45. Ma avevamo appena vinto tre tituli, non c’era proprio nulla di cui lamentarsi. Mentre facevo il caffè, mentalmente salutavo e ringraziavo don Josè, e pensavo alla mia famiglia nerazzurra.
Io sono nerazzurro perché lo è mia mamma e lo è stato suo papà.
Mio nonno Mario portava mia mamma a S. Siro a vedere “Veleno” Lorenzi e Naka Skoglund. Poi, dice la vulgata familiare che la mia mamma uscì con uno che giocava all’Atalanta. Ci andò al cinema una volta. E quello la domenica successiva segnò all’Inter. E mio nonno non era contento. Ma forse è solo leggenda.
Mio nonno Mario aveva appesi in cucina i piatti celebrativi delle coppe Intercontinentali. E io bambino ero sicuro che, per comprarli, a quel tempo avesse traversato l’oceano.
Avevo un secondo cugino, Beppe, di qualche anno più giovane di me, paninaro fatto e finito, che è andato in curva nord coi Boys (e in trasferta) ininterrottamente dai primi ’80, fino al 2006. Quindi, a parte pochissime eccezioni, ha sofferto ogni girone, ogni pena principale e accessoria, dell’inferno nerazzurro. Quando l’ho rivisto la scorsa estate, dopo anni (il suo essere paninaro e fascio-friendly non ha mai incentivato molto la nostra frequentazione), mi ha raccontato che non ci andava più allo stadio. “Perché da quando vinciamo sempre non mi diverto più.” Probabilmente ora sta brindando col nonno Mario.