“Dammi la chiave del 13”

“Ohi, sveglia, vieni in cortile che ho bisogno di te?”
Anzi, per la precisione, non finiva con il punto esclamativo.
“Ohi, sveglia vieni in cortile dai che ho bisogno di te!” 

Da ragazzo le mie domeniche mattina iniziavano così. La voce era quella di mio padre. La faccia assonnata, la mia.
Mio padre con le mani in mano non ci sapeva stare. Insegnava dal lunedì al sabato e la domenica andava in cortile. Apriva il garage e decideva che fare.
Il garage era così chiamato perché in origine era ideato come un luogo per parcheggiare l’automobile nelle ore notturne. Tutti i nostri vicini, nello stesso cortile, rispettavano questa destinazione d’uso. Le due auto di famiglia di mio padre (una era una Fiat 500 azzurra degli anni ’60 ereditata da una zia, con le portiere che si aprivano nel verso sbagliato e l’accensione “a manovella”) pernottavano in strada. Perché in garage non c’era mai posto. Il garage era magazzino, deposito, robivecchi, cianfrusaglieria. Era una raccolta di vecchi oggetti, grandi e piccoli, inevitabilmente bacati dal tempo e da qualche sfiga.
Il garage era il grande giocattolo di mio padre, esattamente come i Lego erano stati il mio giocattolo fino a qualche anno prima.
Solo che mentre il mio era un gioco, una fase, una cosa che poi passa, la sua era un specie di missione. Quelli che da bambini hanno vissuto “il tempo di guerra”, poi spesso diventano così: guai buttare qualcosa, guai sprecare un oggetto, guai a non provarci almeno. A ripararlo. O a trasformarlo in qualcos’altro. 
Ma ovviamente far riparare quelle cose ad altri, avrebbe significato cedere a loro anche il divertimento nel trovare il guasto, la ricerca del pezzo di ricambio o dell’accrocchio autoprodotto che lo sostituisse. Avrebbe significato persino dover pagare che so un idraulico, un meccanico, un ciclista per un lavoro che mio padre adorava fare da solo. Pagare? Ma siamo pazzi? Oltretutto lui ci sapeva fare. Le bici tornavano a frenare, le lavatrici a funzionare, i caricabatteria a caricare, le radio a transistor erano sempre accese.

Ancora oggi in casa di mia madre esistono alcuni oggetti tipo radio o frullatori o torce elettriche, riparati decine di volte, tenuti insieme con filo e scotch. Oggetti che forse mia madre a volte desidera buttare ma non si azzarda per tema che un fulmine (del babbo) dal cielo la colpisca e la disintegri all’istante!

Così, ogni maledetta domenica tra i 12 e i 15 anni, io raggiungevo mio padre in cortile sbadigliando. Sapevo che ci teneva a questi momenti insieme. Cioè non lo sapevo esattamente come lo so ora, da genitore, ma capivo che non era un tormentarmi fine a se stesso, quella cosa di tirarmi giù dal letto e farmi lavorare. C’era un senso, che allora non capivo. Infatti non stavo nemmeno attento.
Ora è facile pensare a mio padre da piccolo, con suo padre al mercato riparare il carretto con cui l’antenato andava in giro a vendere le sementi. O mio nonno bambino con suo padre nei campi a riparare l’aratro. E via dicendo. Ora è facile capire le cose che a 14 anni non capivi. A 14 non è facile capire un sacco di cose. Specie se è domenica mattina e hai sonno.

“Hai sentito quello che ti ho chiesto?”
“Eh?”
“Dammi la chiave del 13. Ma mi ascolti? Ma si può sapere a cosa pensi?” 

Eh, bella domanda. Io esattamente non lo so a cosa pensavo. Ma ero un’adolescente, non è difficile. Pensavo a una vasta gamma di cavoli miei che allora mi parevano immensamente più urgenti e interessanti della chiave del 13 o di come funziona uno spinterogeno o di come si usa una pialla. E lo erano, quei cavoli miei, sia più urgenti che interessanti.
Tanto che ora, a distanza di decenni, sono un adulto con una certa consapevolezza dei cavoli propri, e vado man mano facendo chiarezza nei miei dubbi adolescenziali di allora. E naturalmente, sono diventato un adulto che non sa riparare la gomma bucata di una bicicletta.
Il mio rapporto con il bricolage, nonostante il babbo vi ci sia applicato ogni maledetta domenica per svariati anni, è rimasto decisamente  al palo ed è sintetizzabile nella seguente frase: Non sono capace di piantare una vite, né di avvitare un chiodo.

 

Antefatto.
Leroy Merlin mi ha suggerito di guardare questo suo video.

E mi ha chiesto di usarlo per ispirarmi e scrivere un pezzo sull’adolescente che fui.

One Comment on ““Dammi la chiave del 13”

  1. Beato te, mio padre faceva lo stesso conio fratello. Io invece quel tempo lo passavo a spolverare ammennicoli. Infatti sono diventata la casalinga pigra.

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