omonimia canagliaQualunque cosa accada, io…

omonimia canaglia
Qualunque cosa accada, io sono innocente
Mi squilla il cellulare.
– Pronto?
– Sì buongiorno, sono Franco, della International Video Service.
– Sì, mi dica. (Ho la tessera da loro, non noleggio quasi mai nulla).
– La chiamo per avvertirla che ci sarebbe un ritardo, sì insomma c’è un dvd che deve rientrare dal 17 giugno.
– Azz… (tra me e me prego che non sia vero perché sarebbero un sacco di soldi e la prova definitiva che sono rincoglionito). Mi pare strano perché a me non risulta. Titolo?
– Eh… “Un trans che si chiama desiderio”…
– Meraviglioso, (sollievo) non sapevo l’aveste in catalogo. Merita un noleggio solo per il titolo. Comunque non ce l’ho. Mai visto.
– Sicuro?
– Se l’avessi visto me lo ricorderei, non crede? Lei è sicuro che sta cercando proprio me? (Comincia a venirmi il dubbio).
– Sì, lei il signor Pallino Pinco, via Tizio Caio numer…
– Alt, scusi. Io sono Pallino Pinco, via SEMPRONIO numero 12.
– Ah… cazzarola.
– Eh sì, è il mio omonimo: ogni tanto me ne combina una. Se lo sente glielo dica, grazie.
– Scusi, arrivederci.

Ecco, non so se poi lui glielo dirà. Ma voi è giusto che sappiate.
Negli ultimi due anni sarà capitato 4 o 5 volte che mi chiedano dei soldi a causa sua, l’omonimo canaglia.
La peggiore fu con un armadio del recupero crediti al citofono: “Dovete pagare un cellulare! Ora salgo.”
Non era educatissimo ma credo facesse parte della sua professionalità.
Poi un ufficio tributi di un altro paese mi chiese l’ICI di due anni prima. Qualche multa non pagata. E ora il dvd.
È giusto che sappiate che se un giorno mi arresteranno, ecco, io non c’entro.
























la posta di BURP!SomiglianzeRiceviamo e…

la posta di BURP!
Somiglianze
Riceviamo e volentieri pubblichiamo una mail del buon Mayoral.

ciao zio burp!

capisco che potrà sembrarti il delirio di un suggestionabile visionario,

ma ieri ho visto un sosia di *Elmer fudd*, che indossava una T-shirt nera con su scritto BURP!
da Viridea (noto centro vivaistico dell’hinterland milanese), mica eri tu per caso?


Caro Mayoral, complimenti per la memoria e grazie della segnalazione.
No. Non ero io.
Se lo rivedi, per favore, prendi le sue generalità che poi gli faccio scrivere dai miei avvocati.
Sto infatti per depositare il seguente brevetto “Sosia di Elmer Fudd con maglietta brandizzata BURP!”
Grazie ciao

Aggiungo qui che su questa cosa della somiglianza con Elmer Fudd, prima o poi, in questa o in un’altra vita,
al tribunale definitivo di non so quale dio o idolo pagano,
qualcuno ne dovrà rendere conto.

















cose da leggere qua e làSpigolando: i post…

cose da leggere qua e là
Spigolando: i post degli altri
Il ritmo di un discorso è fatto di parole e di silenzi variamente alternati. Di frasi lunghissime come la prossima. Di frasi brevi e magari senza il verbo come la precedente che ora vai a cercare con gli occhi un momento prima di tornare qui, che ti devo dire delle altre cose e direi che questa frase è già troppo lunga e ci mettiamo un punto, appunto.
Il ritmo è fondamentale sia che si parli sia che si scriva. Sul ritmo ci si gioca una gran quota di attenzione di chi legge o ascolta.
Qui ne scrive Luisa Carrada, partendo da un giochino di scuola USA.
A me vien subito da buttarla in musica. Un musicista che sta per suonare il suo assolo non è altri che un signore che sta per raccontarvi una storia. Voi magari non lo sapete, ma quanta attenzione gli presterete dipende in gran parte dal ritmo delle note che suonerà, dalle pause, dai respiri che si prenderà. dD quanto bene vi saprà dire la sua storia, pur senza una parola.
Come al solito quando la metto in musica rischio lo sbrodolamento. Ci metto un giallino per ricordarmi di scriverci un post appost.

Si fa un gran parlare di chick lit, la moderna evoluzione della letteratura rosa.
Ma dire chick lit e basta ormai non significa nulla. Cassandra, che nel settore ha una certa quotidiana esperienza,
ci guida nella jungla dei sottogeneri.

Qui invece c’è della gente che suona per strada e attenzione: c’è un duenne (bimbo di anni 2) dietro i tamburi della batteria. Un post solare con un titolo che più perfetto non si può.

Qui invece c’è un compleanno che si porta dietro le solite intimiste riflessioni del caso, agilmente ribaltate dal colpo di coda finale.
Colpo d’anca direi.

Qui c’è un intero blog, C’è dell’altro, che segnalo tutto intero per alcuni motivi:
1. ha un bel sottotitolo che ne sottolinea il senso: notizie di umanità sostenibile. Non un blog di fuffa insomma, il che non vuol dire che sia serioso, anzi.
2. lo segnalo tutto intero perché lascio a voi la scelta di cosa leggere.
3. lo tiene Giorgia, un’amica mia, brava e simpatica una cifra.

UPDATE, dimenticavo: Qui il nuovo blog su cui momentaneamente scrive Gaia,
la mia prof. preferita, ora in trasferta nel Vermont.
























cinema & musicaPiano bluesUn anziano…

cinema & musica
Piano blues
Un anziano attore (e regista) americano,
ormai senza sigaro, imbiancato dai chilometri e seccato dal sole, si siede davanti a un pianoforte e si chede che cos’è il blues.
Fin qui lo potete fare anche voi. Se non avete il piano, immaginatevelo.
Quello che non potete fare è avere seduti accanto Ray Charles, Dave Brubeck, Jay McShann, Doctor John, Pinetop Perkins e altri signori prevalentemente neri e sulla settantina che ve lo spiegano loro che cosa diavolo è il blues. E dove non arrivano con le parole, mettono le mani sul piano e voi lì dovete solo chiudere gli occhi e ascoltare i singhiozzi della vostra anima, posto che ne abbiate una.
Un film pieno di stride, di boogie, di decime erranti, di manone saltellanti, trilli, diaboli in musica. Con scampoli di video dei grandi del passato (Peterson, Domino, Monk, Basie ecc.).
Una piccola gemma di film, insomma, da conservare e mostrare ai vostri figli quando prima o poi li vedrete sbrodolare sul cd dell’ultimo fottuto dj che ha campionato “What I’d say”.









scrittoriFernanda e i suoi amoriPer chi se lo…

scrittori
Fernanda e i suoi amori
Per chi se lo fosse perso, qui c’è il pezzo di Aldo Cazzullo su Fernada Pivano uscito sul Corsera l’altro giorno.
Pavese, Hemingway, Kerouac, Corso, Miller e compagnia scrivente.
E la Pivano astemia. A innamorarsi proprio di De Andrè ai tempi di Spoon River.

Ehi, tu, sì dico a te che ti stai chiedendo “E Vieri?”: qui non si parla di Fernanda Lessa, dai, non oggi.









mestieriCreativi a ore: so’ pegg’ che le…

mestieri
Creativi a ore: so’ pegg’ che le buttane
Se vi interessa uno sguardo impietoso sul dorato mondo dei creativi pubblicitari, c’è un libro ormai molto noto che si chiama “26.900” di Frédéric Beigbeder. La trama è semplice: un creativo di una grande agenzia sputa con gioia, o meglio scaracchia, nel piatto dove ha mangiato fino al giorno prima.
Ma se non avete i soldi o il tempo di leggerlo, leggete Pulsatilla quando scrive del suo lavoro.
Lo sguardo è lo stesso e l’amica Pulsa risulta assai più simpatica (e meno strafatta, credo) del furbo creativo francese. E in più è gratis e quei soldini ve li mettete da parte per offrire una birra a me o a lei.





il nome del doloreTu chiamale se vuoi,…

il nome del dolore
Tu chiamale se vuoi, protrusioni
A tutti coloro che mi sono stati affettuosamente accanto nei recenti dolorosi momenti della mia periartite, momenti scanditi anche qui on-line da un quotidiano rosario di imprecazioni, a tutti coloro che hanno azzardato diagnosi, proposto rimedi, spedito pomate e unguenti, inviato talismani e massaggi virtuali, a tutti coloro che si sono insomma presi a cuore la mia salute e hanno lodato lo stoicismo con cui, seppur dolorante, bloggavo sotto sedativi, ebbene volevo dire che: la periartite c’è ma non era lei a causare lo sconquasso. Trattasi invece di ernia cervicale C4-C5 accompagnata da due protrusioni ai dischi C5-C6 e C6-C7.

Fin qui la diagnosi. Mi preoccupa un po’ il fatto che il mio fido ortopedico che già mi fu accanto in altre diagnosi più semplici, in questo caso si sia dato alla macchia. Mi spiacerebbe assai che l’eventuale non risolvibilità del mio caso gli stroncasse una ben avviata carriera.
Ora comunque va meglio. La fase acuta è passata e prima che ritorni estendo il mio grande abbraccio a tutti voi.
Quasi tutti.
Tutti meno quelli che mi hanno detto “prova con la propoli”.

SOUNDTRACK: implicito nel titolo, lo dico solo per i più giovani e digiuni, “Emozioni” di Lucio Battisti.











“You can learn from the duck, now”



Circa un mese fa se n’è andato Steve Lacy, musicista jazz. Ma non solo. Lacy definiva la sua professione una combinazione tra “orator, singer, dancer, diplomat, dialectician, mathematician, athlete, entertainer, educator, student, comedian, artist, seducer”.

Suonava il sassofono soprano, quello lungo che ai profani sembra un clarinetto dorato, il più infido e lunatico degli strumenti ad ancia. Lacy lo suonò dagli anni ’50 in poi prima con Cecyl Taylor, poi con Monk, con Gil Evans e parecchio da solo.
In un certo senso, Lacy prese in consegna il soprano da Sidney Bechet e lo passò a Coltrane. Dopo la morte di Trane lo riprese (rovente) e lo usò per dipingere nuovi mondi.

C’è una persona nella mia città che ha conosciuto e studiato a lungo l’arte di Steve Lacy, come musicista e non solo. Il ricordo che ci ha mandato non è breve, né date le premesse poteva esserlo.
Non è un testo per soli iniziati, nulla di troppo tecnico, lo dico per i lettori abituali di BURP!: prendetelo come un racconto sull’arte e l’amore per essa, perché in fin dei conti è proprio quello che è. (I grassetti sono miei e sono solo per guidare meglio la lettura.)

Per chi invece non è un lettore abituale di BURP! (e capita qui grazie alle mail che ho spedito), aggiungo che il link commenti in fondo al testo apre una finestra destinata ad accogliere per l’appunto il commento di chi volesse dire la sua o semplicemente salutare.

L’autore delle prossime righe si chiama Gianni Mimmo, questo è il suo lavoro e sarà felice di leggere i vostri commenti qui sotto, o di riceverne direttamente alla sua mail amiraniwr@libero.it
Per intanto, da parte mia, grazie Gianni.


Let him go
Io comincio dall’abbigliamento. Davvero fu la prima cosa che mi colpì di lui. Era una sera di giugno del 1973 e stavamo in un’aula dell’università di Pavia. Avevo solo letto qualche articolo sulla sua musica, non avevo avuto occasione di ascoltare alcunché.
Free-jazz era la parola, la definizione che voleva configurare questo approccio stilistico al fare musica. Tenevo in mente nomi come Ornette Coleman, Cecil Taylor, Eric Dolphy, Archie Shepp, Albert Ayler, Roscoe Mitchell, Joseph Jarman, Don Cherry, John Coltrane, Rashed Ali.

Uscivo dai concerti con la netta sensazione di aver assistito a qualcosa di rituale, a cerimonie dense e caotiche, a spazi sonori molto compressi nei quali l’impatto emotivo risiedeva in una sorta di multicentrismo, di concomitanza espressiva. L’album di Ornette il cui titolo aveva dato il nome, il crisma artistico a quel movimento musicale, presentava un doppio quartetto che sovrapponeva le proprie linee, che godeva dei battimenti dissonanti, degli scontri timbrici. Entravo in un bosco intricato e vivo, con mille sentieri da poter seguire, segnali da poter fraintendere, soluzioni impensabili, semplici e gotiche insieme. Taylor, ad esempio, lavorava con imponenti masse sonore, imprimeva spostamenti assoluti, il pianoforte era una specie di fucina, un’officina del tuono. Si restava sopraffatti come dalla raffinatezza di Stravinsky, come dai timpani squassanti di un orchestra sinfonica nel pieno di un fortissimo. Archie Shepp lacerava Lush life di Billy Strayhorn come fosse la prima cosa da fare per dare il via alla rivoluzione. L’istanza politica ribellista e cosciente, afroamericana e anche un urlo spirituale che pareva cominciare ad abitare in modo definitivo la musica di Trane.

Tenevo dentro come un capitolo a parte, raffinato, quasi aristocratico, il suono marziano di Eric Dolphy. Consideravo, e ancora la penso così, che Dolphy avesse compreso qualcosa di inesprimibile e che potesse rivelare poco alla volta, con lampi di luce assoluta, una purezza più grande, un’originalità artistica elegantissima e davvero nuova.

Quella sera Steve Lacy vestiva una blusa sahariana color beige con tanto di cintura, pantaloni chiari larghi molto demodé a buon mercato e mocassini di cuoio intrecciato. Portava i capelli corti e notai che la sua fronte era smisuratamente alta. I suoi movimenti, mentre raggiungeva il piccolo palco denotavano una certa asimmetria degli arti inferiori.

L’impressione era un tantino anacronistica, avevo uno zio strano che vestiva così.

Un concerto di sax soprano.

Solo.

Io non lo dimenticherò mai.

Mi segnò e mi insegnò.

Negli anni a seguire riconobbi il germoglio dei semi che ebbi l’occasione di veder gettare in quella serata. Innanzi tutto un rapporto con il suono inteso come materia.

Lacy ci ha consegnato un suono unico, riconoscibile, riconducibile unicamente alla sua esperienza. La stessa autorità, la cifra dei grandi artisti. Miles, Trane, Dolphy, Klee, Callas, Piero Della Francesca, Paganini, Giacometti, Bach, Carmelo Bene, Cage, Glenn Gould. Dai primi, primissimi suoni, da appena accennati segni noi affidiamo loro il cuore, li riconosciamo come sentieri veri, il loro percorso ci chiama l’attenzione, la loro sincerità, persino il loro silenzio è gravido.

Dave Liebman racconta della grandezza di Miles, del potere che aveva pronunciando la nota armonicamente più “sbagliata”, di renderla inspiegabilmente vera, pura e nobile.

Appartenere alla musica, esserne tramite, esserne abitati più che abitarla.

Così, con facilità, Steve sembrava lavorare su questa materia con un’incredibile economia di mezzi.

Questa essenzialità lo portava a considerare i brani propri ed anche le sue celeberrime interpretazioni dei temi monkiani, come spazi da percorrere con maniacale attenzione ai frammenti.

Provate ad immaginare un oggetto a voi caro, a come lo accarezzate con lo sguardo, a come lo rigirate fra le mani, come lo ascoltate.

Era questo che faceva.

Il sax soprano è strumento ibrido, un poco costretto nella propria forma.

Una volta Lacy mi disse: “Forse, per qualche tempo, puoi governarlo, in alcuni casi puoi credere di averlo domato. Credi, non è così. La cosa più probabile è che la durata di una vita non basti. È fatto per smarrirsi. Credo che Adolphe Sax lo sapesse”.

Spesso, nella quasi totalità dei casi, il sax soprano è inteso come secondo strumento, un prolungamento del sax tenore, una scusa per spingersi nel registro più acuto. Trane percorse questa strada, Liebman lo fa tuttora per sua esplicita ammissione e anche Shorter usa il soprano in questo modo.

Non per Lacy che ne ha fatto una ragione.

Il soprano non suona bene, non è omogeneo, i suoi registri sono dislocati in zone improprie.

Affonda i suoi bassi nel cuore del sax tenore e suoi acuti negli squilli di una tromba.

Allora tutto il lavoro risiede nel trovare una identità coerente a quel tubo conico dritto.

Anche il fatto di trovarsi solo ad affrontare unicamente quello strumento ha giocato un ruolo determinante nella nascita del suo stile. Lacy considerava questo un vantaggio. S’innamorò di Sidney Bechet che trovava il soprano più facile di un clarinetto, che suonava il soprano come un clarinetto. Bechet ricorreva ad un vibrato molto evidente per compensare il proverbiale difetto di intonazione del soprano. Ora, ciò che continua stupirmi ancora oggi dopo centinaia di ascolti di Lacy è l’assenza quasi totale di vibrato. Questa pronuncia completa, questo attacco estremamente pulito, la straordinaria ricchezza armonica, l’articolazione raffinata e infantile insieme, l’amore per temi semplici che attraversano tutta l’estensione dello strumento con una eleganza formale di rara perfezione. Gil Evans comprese prima di tutti questa unicità. Gil scrisse i primi soli di sax soprano moderno per Lacy. Gil aveva uno straordinario talento per i colori orchestrali oltre ad una visione stilistica globale della musica. Se ascoltiamo l’album “Gil Evans & Ten”, questi elementi sono veramente evidenti. Gli accostamenti timbrici sono arditi, di straordinaria modernità. L’esposizione dei temi rivela un Lacy acerbo ma inesorabile. A quel tempo Lacy stava cercando in modo ossessivo di affermare il soprano come strumento pieno e maturo. Il soprano era considerato come una specie di curiosità. Anche se in misura molto minore, ancora oggi è cosi.

Steve Lacy considerò per tutta la vita Evans un proprio maestro, lo ripeté in moltissime occasioni.

A proposito di maestri, conosco una serie di aneddoti che Lacy mi raccontò personalmente.

Egli amava ripetere quella storia dell’ingaggio nel quartetto di Monk.

“Monk aveva uno strano modo di dirmi le cose. Io non ero mai rilassato, studiavo tutto il santo giorno e alla sera suonavo al club nel suo quartetto. Aveva questo vezzo di sussurrarti enigmatici suggerimenti nel mezzo del tuo assolo. Una sera si girò dal pianoforte e mi disse: “Lift the bandstand” (in italiano credo che suoni come: Fai lievitare il palco . N.d.R. ). Parlava poco e aveva come il potere di muovere l’energia. Soprattutto mi diceva cosa non dovevo fare, è stato molto duro lavorare con lui. Fu straordinariamente importante per me”.

Gil Evans lo portava a certi concerti di musica cameristica, lo spingeva all’ascolto di sonorità insolite. Alla fine di una seduta di registrazione del suo tentetto, Lacy provò una sorta di frustrazione per come aveva suonato. Il timbro non era maturo, il risultato non gli pareva buono e provava una certa fatica. Evans lo chiamò in disparte e gli chiese. “Che accidenti hai?” Lacy rispose che nonostante i ripetuti sforzi, il suono che cercava non veniva e cominciava a credere che quella non fosse la strada giusta. Evans lo guardò e poi chiese : “Are you lost?” Lacy ammise il proprio smarrimento. Meravigliosa fu l’espressione di Gil : “That’s exactly what I wanted from you, man”.

Lacy usava questi esempi nei suoi seminari per spiegare quanto importante è il senso del limite.

Un suo celebre esercizio si chiama “Tight corners” (angoli stretti) e consiste nel costruire melodie servendosi di pochissimi suoni, non più di quattro o cinque note, mentre l’armonia sotto cambia in continuazione. In alcuni casi tutto sembra filare liscio, ma poi le cose diventano difficili e servirsi di quei suoni non sembra possibile senza creare un qualche scompiglio.
“Devi avere il coraggio di suonare male, guardati mentre vai a pezzi, frequenta le tue incertezze”.

Gli feci notare quanto Zen ci fosse nelle sue parole.

Sorrideva e diceva che ci fu un periodo nel quale le pratiche estreme lo attraevano e lo temprarono.

C’è la celeberrima vicenda delle due note. Steve amava ripeterla.

“Questa l’avete già sentita di sicuro… Beh, ve la dico ugualmente… presi un intervallo minimo, una seconda minore, mezzo tono e lavorai a lungo, molto a lungo su quelle due note. Cominciai per qualche minuto e poi proseguii per una buona mezzora, quando passarono un paio d’ore credetti di impazzire, dopo qualche tempo vedevo cose e lo spazio sembrava cambiare. Quel piccolo intervallo era divenuto enorme, vasto. Quando tornai ad altri suoni il mondo era nuovo e senza misura.”

A questo punto citava George Braque: “Obsession! Impregnation! Hallucination!”

E poi faceva una piccola risata.

Avevo praticato per un periodo irragionevolmente lungo questi esercizi sugli armonici.

Lo avevo fatto in un bosco, lungo il fiume

Lo consideravo una disciplina, una specie di ginnastica mistica.

Dopo qualche tempo mi capitò la compagnia di un tale che se ne stava per tutto il tempo ad ascoltare, senza dire una parola, una decina di alberi più in là. Beh, la cosa aveva un che di inquietante perché quel tipo di esercizio non è il massimo dei divertimenti per chi lo fa, ma vi assicuro deve essere terribile per chi ascolta. Per questo avevo scelto un posto isolato. Il tale stava a una certa distanza e quando finivo, semplicemente se ne andava così come era venuto.

Nel 1998 feci uno stage con Lacy a Bologna, ero molto fiero del mio lavoro e glielo dissi.

Lui disse che il mio suono stava crescendo e che questo era un bene.

Risposi che probabilmente sbagliava, e gli raccontai di questo spettatore nel bosco.

Lacy rise di gusto e fece una dedica sulla mia copia del suo “Findings” che ancora conservo.

Io chiesi se aveva qualche suggerimento da darmi e lui disse:

“You can learn from the duck, now”.

Beh, è cosi che ho fatto e continuo a fare: imparo dalle anatre.

Non capii subito che Steve parlava dell’attacco di una nota sul soprano.

Ma davvero è così che faccio.

mai più senzaSubcomandante MarcosVi prego,…

mai più senza
Subcomandante Marcos

Vi prego, ditemi che ci sono un grafico e uno stampatore bravi che stanno provvedendo a fare la maglietta di Follini con il basco e la stella rossa di guevariana memoria.








spiazzamenti seriali in tv …

spiazzamenti seriali in tv

Figlia di chi? Ma va? Ma da quando?

Qualcuno mi può gentilmente spiegare (amiddleclassgirl forse?) perché ora Nathan Fischer ha una figlia da una tipa mai vista e quel gran bel gomitolo di nevrosi a nome Brenda è finita in un corso di recupero per sex addicted?
Io credo di essermi perso solo una puntata.
O non è che per caso Italia Uno ha ricominciato a mandarle in onda così un po’ ad cazzum?