Blogfest e nostalgia: di parole 1.0

Pensando alla Blogfest ho avuto un po’ di saudade dei vecchi tempi. Ho pensato che una delle cose che mi eccitava da pazzi era andare lì a un blogrodeo a una blogfest a un blogaperitivo e vedere che faccia e che occhi avevano il caio, la tizia e i semproni, che leggevo da mesi ignorando ogni cosa di loro tranne quei pezzi delle loro vite e dei loro pensieri che ti bevevi sui loro blog dalle loro parole.

Parole.
Che in quell’occasione d’incontro diventavano volti, suoni, occhi, a volte tette.
Sì perché nel caso di tizia, anche il punto di domanda sulle tette aveva la sua legittimazione.

Ora invece è tutto diverso perché tutti ci mettono (ci mettiamo) la faccia (a volte anche le tette) su questo web.
E’ giusto così, mica stiam qui a far del luddismo, ma non c’è più quel brivido lì che a me piaceva tanto.

Sei ghei! Lo-sai-cosa-vuol-dire?

La settenne torna dal primo giorno di seconda elementare.
– Ti faccio un gioco, scegli un numero – e tra le mani a coppa costudisce una specie di fiore di carta con dei numeri scritti sui petali. Alle sue spalle Lady Burp alza sei dita. Io eseguo.
– Ahem… scelgo il 6.
Alice apre il petalo e legge.
– 6, sei ghei! Lo-sai-cosa-vuol-dire? – Lo dice tutto d’un fiato, perché la domanda in qualche modo viaggia allegata alla rima.
Sul petalo, intanto, noto che c’è scritto proprio “ghei”.
– No, non lo so, dimmelo tu!
– Vuol dire che sei innamorato di un uomo!

Penso che siamo stati fortunati e che poteva andare molto peggio. Che ti hanno detto la parola “ghei” e te l’hanno spiegata con l’amore. Mi auguro che tutto ciò sia di buon auspicio per tutti i discorsi e le parole e le spiegazioni non facili che man mano verranno.

Ai tempi della mia seconda elementare, tra maschietti la parola in questione era culattone. E non ho mai capito perché il numero “infamante” fosse il 16, che si disegnava sui banchi e dietro le sedie.

Raccontare d’arte. Ma con o senza figure?


La premessa è che io di arte in generale so ben poco e di contemporanea ancora meno. Beh, Sono una vera capra. (Beh, be’, beee, appunto).
Dopo questo libro (Lo potevo fare anche io, di Francesco Bonami) forse lo sono un filo meno. E in ogni caso mi ci sono divertito una cifra. Ci sono anche idee, concetti e riflessioni, sì, ma soprattutto ci sono storie. Storie di persone, in questo caso artisti. E’ un libro, va da sé, pieno di creatività, ma non solo nell’argomento. Anche e soprattutto nel linguaggio e nello stile, che diverte sempre e non annoia mai. C’è quell’equilibrio leggero che aggiunge al saperne di una cosa il fatto di saperne parlare in modo interessante. Roba non poi così diffusa in giro. (Ah, per intenderci: questa è la mini recensione che ho messo su Anobii, ivi scoprendone altre decisamente critiche sullo stesso libro).

Una cosa mi sono chiesto, leggendolo. Quanto sarebbe stato diverso, per me visivamente e visibilmente ignorante, se questo libro avesse avuto… le figure? Se avessi visto immediatamente ogni opera descritta?
Perché guardarla, un’opera, quando puoi – guidato da parole così efficaci – semplicemente immaginarla?
Così penso che forse questo libro sia da leggere due volte. E la seconda con una mano sola.
No… che avete capito? L’altra su Google.

Taccuino trentino 7 – Lei legge da sola

(Premessa: le vacanze sono terminate da 15 giorni ma continuare a postare dal taccuino mi pare un buon espediente per allungarne il benefico alone).

Nell’estate tra la prima e la seconda elementare Alice ha letto dieci libri.
Il doppio di quelli che legge mediamente un calciatore in una vita.
Ed esattamente nove in più di Antonio Cassano.

Taccuino trentino 6 – Fortunato Depero e mio zio Rosario

“Nella nostra casa, ma dalla parte di là, quella della Margaret, è nato Fortunato Depero. Nella stessa stanza dove poi è nato anche tuo zio Rosario.”
Finché l’aveva detto mia mamma non è che ci avessi creduto molto. Ma poi l’ha detto anche il presentatore della banda musicale del paese, la sera di S. Rocco, facendo un gesto come dire “e scusate se è poco eh, che artisti eh, qui a Fondo, Val di Non”.
E in quel gesto però lui alludeva solo a Depero, non a mio zio. Per altro su Depero c’è offline e online un sacco di roba. Per dire: è uno che ha lavorato con e per Stravinsky e Picasso, oltre che con tutto il futurismo che conta, uno che ha “spezzato” e bullonato libri, ideato copertine per magazine di qua e di là dall’oceano. E ha disegnato poi nel 1928 la bottiglietta del Campari, tale e quale a ora.

L’influsso del Depero sulla mia vita è stato tuttavia infinitamente minore a quello di mio zio Rosario, che quando è nato era tutto blu e per fare in fretta prima che se ne moriva gli hanno dato il nome di una cosa che avevano lì, per le mani.
E per fortuna che poi non è morto. Sì perché dai ’70 in poi, proprio lui mi ha raccontato i film che io ero troppo piccolo per vedere, mi ha prestato gli LP dei Beatles, dei Pink Floyd e di Battisti (ma anche dei Pooh e di Tozzi per verità storica), mi ha fatto giocare in lungo e in largo col suo plastico ferroviario dei trenini elettrici Lima, ha chiuso un occhio quando gli ho rubato i giornaletti porno che lui vendeva in edicola e mi ha prestato – a sua insaputa però – la casa per portarci la morosa a fare roba.

Quindi riasumendo: zio Rosario decisivo su cinema, musica e topa.
Il trenino elettrico, invece, credo sia in cantina, se c’è ancora.

Io vado da sola

Oggi Alice ha preteso di andare al centro estivo da sola. Sono non più di 600 metri. Ma c’è un grosso incrocio con semaforo e 3 stradine da attravesare.
La vegliavo in bici sull’altro marciapiede da una cinquantina di metri, con la diligenza materna di un cacciabombardiere.
Difficilmente potrò farlo ancora a lungo. Vegliare, intendo.

Taccuino trentino 5 – Non Sveglio

Da ormai 6 anni io me lo perdo perché è a luglio, ma anche quassù c’è un festival jazz: il “NonSole Jazz Festival“, organizzato dal bravo Enrico Merlin, millimetrico biografo davisiano, di cui è in uscita un libro su “Bitches brew”.
Tutti gli anni un pensierino alla forte vena scaramantica di colui che lo ha intitolato così: non sole, per dei concerti all’aperto, in montagna, ci vuol fegato.
Poi fulminea l’illuminazione: il festival unisce due valli, val di Non e val di Sole.
Già.
E i miei neuroni non sono più quelli dei vent’anni.

Taccuino trentino 4 – La parola che fa ridere: dindolone

Questa non c’entra col Trentino, ma con la vacanza sì perchè ogni estate nasce una parola che fa ridere. L’ultima era Ogigia, isola omerica e parola tremendamente buffa, da pronunciare rigorosamente con la bocca a culo di gallina.

Quest’anno la parola è “dindolone”. E i riferimenti sono molto meno colti e assai più terreni e quotidiani.

Vedendomi uscire dalla doccia, Viola, dal basso dei suoi 20 mesi, si è informata. “E petto pi cosèè?”
Io ho dovuto improvvisare un neologismo. È uscito quello: “E’ il dindolone!”.
Una parola giocosa, ma di carattere, non priva di una sua oscillazione poetica, tra il basculante e il musicale. Una versione meno sguaiata di batacchio, più giocosa di pene, meno volatile di uccello, meno equivoca di pisello. Signori Accademici della Crusca, mi auguro che prima o poi lo prendiate in considerazione.

Taccuino trentino 3 – Vacca che mucca

Sto spiegando a Viola che quella che abbiamo davanti è una vera mucca, una signora vacca con tutti gli attributi, l’odore, gli occhioni, le mosche, le corna, la cacca, il vitellino e quelle grosse mammelle rosa così belle gonfie di latte, sto spiegando questo alla creatura di 20 mesi, quando mi scappa l’occhio sulla targhetta che la bovina sfoggia all’orecchio, quella con tutti i suoi dati anagrafici, in testa il nome proprio. Un nome non del tutto autoctono: Belen.

Taccuino trentino 2 – Mele, non paesaggi

Frequento la Val di Non dai primi ’70 e solo ora ho realizzato perché ogni volta che vedo altre valli e montagne penso cose tipo “ah sì, la montagna… quella vera”.
Perché lì riesco senza sforzo a vedere prati e boschi. Qui nella valle degli avi, invece, la mela ha il sopravvento sul paesaggio purtroppo. Lo cancella, lo appiattisce, lo schiaccia. Come dici? No, certo che non vedo solo meli, no. Vedo anche impianti per l’irrigazione, serre, tendaggi protettivi, recinti e tutto il corredo tecnologico di un frutteto intensivo di questo millennio.
Troppo. Troppe mele, troppe. Addio paesaggio. Urge consolazione.
“Cameriere, avete strudel con mele nostrane, nevvero? Ebbene portatemene due interi e lasciatemi solo.”