A funghi…
A funghi
Cammina veloce, zioaramis nel bosco. Ha quasi settantanni e sei mesi fa gli si è quasi fermato il cuore.
Annaspo alle sue spalle. I funghi ci sfuggono. Ha gli stessi occhiali, zioaramis, che aveva nel ’78. Montatura pesante tipo tartaruga. Ha molte più rughe del ’78. Aristotele Onassis, ecco a chi somiglia.
È scoglionato forte zioaramis. Due ore, quasi mezzo cestino, nemmeno un porcino. A me sembrano tanti. Ma li ha trovati tutti lui.
Finferli, finferle, rossignoli, cioni, mazze da tamburo, brise, trombette da morto, boleto così, boleto cosà, funghi della nebbia, la vescia, la loffa, la ciata de l’ors. Una manciata di nomi e di suoni che ritornano dall’oblio. Sono 25 anni che non vado per funghi.
Ogni tanto lo perdo zioaramis. Cristosanto e ora? Fischio e rifischio. Poi caccio un urlo. Cercando la giusta modulazione per dire in un paio di sillabe il seguente articolato messaggio “Cioè… zio, io son qui e tu? Non mi sono perso eh. Non ho paura. Voglio solo sapere dove sei per evitare che accada che ci perdiamo. Tu dove sei? Dove cazzo sei?” Esce un urletto strozzato. Lo ripeto con più volume. Lui risponde da su, più lontano. Perfetto. In fondo siamo animali. Scimmie. Ci capiamo al volo a distanza, nel bosco. Quark.
Ok, ora devo trovare un cazzo di fungo, devo. Mi concentro. Scendo nell’ade a trovare gli antenati appenninici. So che su nel piacentino, tra Bettola e Rigolo avevo uno zio Olmo. Uno con un nome così, i funghi gli saltano addosso, gli crescono sulle caviglie. Ma nulla. Allora penso al babbo che con zioaramis a funghi competeva. Sempre perdendo, però, in qualità e quantità. E che è lui, il babbo, – lo capisco solo ora – il motivo per cui sono qui ora, a scarpinare sopra una montagna, inseguendo l’uomo-stambecco con la faccia di tartaruga.
Alè, lo trovo. È uno stecchino d’oro o uno stecco del pino, non ricordo più nemmeno il nome. Quando lo arraffo è molto più grosso di come pareva da fuori. Lo alzo contro il cielo per vederne il profilo. In fondo si vede il lago, ma quanto siamo in alto?
Isso il fungo al cielo mormorando “Kunta. Kunta Kinte”. Penso che stasera tagliatelle e poi sento il vocione vicinissimo alle mie spalle.
“Cazzo fai, ti sei perso?”
Thelonious Monk Himself – Un libro con il tasto play
In occasione dello spettacolo Misterioso, domani al Teatro Fraschini di Pavia, mi sono convinto fosse buona cosa ricicciare questo pezzo.
Thelonious Monk Himself – Un libro con il tasto play
Dice che scrivere di musica non è difficile. Ma scriverne bene sì. Lo diceva pure Zappa, in una delle sue più celebri provocazioni: “Scrivere di musica è come danzare di architettura”.
Tra i libri sui musicisti non sono molti quelli capaci di portarti davvero dentro la musica. Di fartela sentire, di girarsela tra le righe, smontarla, raccontarla. Stop. Rewind. Play. Ecco, senti qui. Capito cosa sto dicendo?
In molti casi il libro su un musicista è una biografia, minuziosa quanto vuoi, con una discografia inappuntabile. Ma muta proprio sulla musica. Lavoro da storico, da archivista. Tipo il libro di James Gavin Chet Baker, tanto monumentale e dettagliato quanto arido e muto. Un libro senza il tasto play.
Poi ci sono le eccezioni: tra cui alcuni libri firmati da musicisti che sanno usare anche la penna. Laurent de Wilde, pianista francese è uno di questi. E il suo libro su Thelonious Monk (ampiamente citato anche in Misterioso, un recente spettacolo dei maestri Umberto Petrin e Stefano Benni) è quanto di più interessante, profondo e vitale si possa leggere oggi in italiano sul pianista newyorkese. Non conosciamo i dischi di de Wilde né altri suoi testi: difficile dire se de Wilde sia più un pianista che scrive o uno scrittore che suona. Ma chissenefrega. Certamente, almeno su Monk, le cose gli vengono bene: semplici, creative, stimolanti. Mai fredde. E nel suo libro Thelonious Monk Himself, minimum fax, Monk c’è proprio tutto.
Carriera strana quella di Monk. Che nasce a New York, la meta e la mecca di tutto il jazz dell’epoca, ma subito giovanissimo la abbandona. Per due anni se ne sta in giro per l’America ad accompagnare le prediche di un’evangelista. Quando rientra a casa lo troviamo al Minton’s nei primi anni ’40 a fare da ostetrica al bebop. A trenta anni, tardissimo, la prima incisione a proprio nome. E quasi nessuno che se ne accorge. Poi altri anni di incisioni e concerti (ma dieci senza cabaret card per storie di droga e di cattive compagnie), un ruolo di accompagnatore discusso (“Sul mio solo niente piano, grazie” gli disse assai meno cortesemente Miles Davis),l’incontro con Orrin Keepnews e finalmente il successo dopo i quarant’anni. Finalmente i riconoscimenti, i capolavori. Ma attenzione: sono le stesse cose che lui suonava da anni, identiche, brani e stile. Solo che il mondo adesso se n’è accorto. E allora il successo, i dischi della consacrazione, le copertine, i tre periodi (Prestige, Riverside, Columbia), fino agli eccessi dei tour “all star” e poi rapido il sipario. Non un crash in auto, nessuna dose tagliata male, nemmeno delle crocchette di pollo che ti vanno per traverso davanti al tuo tv show preferito. Nessuna fine rapida, da vero maledetto, no. Il declino più lento e tragico di tutta la storia del jazz. Chiuso in una stanza per cinque anni a fissare il muro, pazzo. E genio.
Tutta questa storia, de Wilde non la racconta per bene in fila. La spezza in capitoli tematici (i produttori, il Minton’s, i sassofonisti, le donne, i cappelli), ma mette sempre in primo piano la musica: la sua ammirata e immaginifica descrizione della musica di Monk. È qui che De Wilde – accompagnato dal suo validissimo traduttore Michele Mannucci – preme il tasto play. Monk non è un universo facile, tutt’altro. Ma la passione e il talento di De Wilde lo sanno raccontare. Lo stile per esempio: Monk che suona come un vibrafonista, con le dita tese e un suono percussivo; Monk che usa ghost notes che fanno impazzire chi cerca di trascrivere i suoi voicing; Monk che soprattutto sa “scolpire” il tempo e – nel piano solo – farsi sezione ritmica da sé medesimo.
Prima di lui, lo stile del piano solo era ancorato alla scansione dello stride: la sinistra vola e alterna basso e accordo, la destra è libera di gestire melodia e soli. Tecnica meravigliosa e completa. Che Monk comincia a erodere dall’interno – lui che lo stride ce l’ha nel dna dai tempi del predicatore – sviluppando uno stile ritmicamente più libero. Una libertà che apre la strada a molte successive rivoluzioni e non solo pianistiche.
Perché nel piano solo Monk è uno strano e buffo equilibrista. È un signore grande e grosso che cammina su un filo. Quel filo è il tempo, inevitabile, dritto, necessario. Lui ci va sopra pigramente, guardandosi intorno e grattandosi la testa. Guarda il panorama, legge il giornale. Forse mangia un gelato. O si cambia il cappello. E intanto cammina, dentro e fuori dal tempo. Ogni tanto fa un saltello. Sbanda. Muove le braccia, sembra perduto e quando ti aspetti il tonfo lui si ripiazza saldo coi suoi piedoni sul filo. Monk non ha paura di cadere, non ha paura del vuoto.
E non ha fretta Monk, di arrivare da nessuna parte. Non ha proprio fretta. A differenza dei bopper suoi complici, che fanno le gare e fanno della velocità di esecuzione uno dei loro tratti distintivi. Nei tempi medi delle sue composizioni, c’è tutta la sua indolenza quasi plantigrada.
E de Wilde ci presenta i suoi gruppi, i suoi partner (Charlie Rouse su tutti), ci porta dentro lo studio di registrazione, disegna gli equilibri della sezione ritmica, prende la lavagna e il giradischi e ti spiega la nascita del bebop
E con discrezione entra anche negli affetti di Monk, presentando due donne complementari e indispensabili: prima Nellie, la moglie devota, poi la baronessa Pannonica de Koenigswarter, l’aristocratica “alternativa”. Senza la pazienza e l’umiltà della prima, senza la passione e i mezzi della seconda, chissà che ne sarebbe stato di Monk e della sua musica.
Questa musica sghemba e luminosa, spigolosa e sferica, affondata nel blues ma proiettata altrove. Quella che Monk ha continuato serenamente a coltivare senza fretta, senza rincorrere mai un collega né uno stile, fregandosene di tutto finché non è stato il mondo ad accorgersi di lui. Monk ha scelto il suo spazio, ha piantato la tenda e ha cominciato a lavorarci. Fino a farne la miracolosa, inquietante cattedrale (così Enrico Pieranunzi nella prefazione) che oggi conosciamo. E che grazie al viaggio sonoro di de Wilde possiamo visitare.
Pubblicato su Medicine Show di luglio-agosto 2006.
Doll casting
ZB e la sua prole al mercato quel giorno che la creatura vide per la prima volta Ken, il compagno (?) di Barbie, il primo bambolo maschio in cui si imbattè.
– Papipapipapi, davvero, dobbiamo comprarlo, davverissimo.
– Ma dai… che ne hai già un sacco di bambole…
– Dobbiamo, davvero. Papi, davvero.
– ?
– Perchè alla fine le mie Barbie… devono sempre sposare un cavallo.
Misterioso…
Misterioso
Ci hai da fare venerdì sera? No perché al Fraschini a Pavia c’è Misterioso, lo spettacolo di Stefano Benni e Umberto Petrin su Thelonious Monk? Sì quello di cui ti ho parlato l’altra volta. È una serata benefica. Se ci vai sostieni la ricerca sulle leucemie.
E sarà benefica pure per te, te lo garantisco.
Hai bisogno di saperne di più? Ecco, allora leggi qua.
Come sarebbe che non ti basta?
…
Ok ok se proprio insisti… mi deciderò a postare stasera l’articolo che scrissi per Medicine Show l’estate scorsa. È la recensione del più bel libro uscito su Monk, quello di Laurent de Wilde. Bevitela come aperitivo e poi goditi lo spettacolo.
E poi torna qui e se ne riparla.
Piove sui nostri volti metropolitani…
Piove sui nostri volti metropolitani
E non solo su quelli. Lo vedi subito che non sarà facile. Lo vedi quando il capotreno fischia e gesticola e ti toccano i 100 piani a ostacoli sul binario 22. Inutili. Incredibile: a volte partono puntuali, ebbene sì accade.
Poi dopo aver preso il treno successivo scendi e vedi il 7. Zompettando dentro paludi e torrenti lo raggiungi in tempo per bussare alla porta chiusa. E parte.
Incazzoso lo aggiri cercando di incruscarlo all’altro lato della piazza, complice il traffico. Ma un semaforo ti stoppa e lo sfanculi, il 7.
Bene, a noi due stocazzo di temporale. In fondo non hai l’ombrello ma il cappuccio sì. (Il giorno dopo mentre scriverai un post dovrai ricordarti di uscire a comprare un ombrello). Hai anche un libro, un libro sui disegni animati che ti sei appena comprato, bello lustro. Lo togli dal sacchetto di plastica e lo metti nella tasca dell’impermeabile (?). Nel sacchetto tieni fogliacci di appunti e fotocopie.
Arrivi a casa inutilmente fradicio e tosto alla famiglia mostri orgoglioso il libro. Ovviamente bagnato giacchè la giacca era permeabile, permeabilissima. Asciuttissimo il contenuto del sacchetto
Allora intrepido lo metti nel microonde e pazientemente controlli che non ne nasca l’incendio che potrebbe rendere indimenticabile la tua giornata.
Questo spazio langue un poco, I know.
Pigrizia, demotivation, pausa di riflessione, direi.
E la pioggia.
Ubi Disney, Shakespeare cessat
Creatura: Papipapipapi, ma Verona è una città?
ZB: Sì, certo. Ma il nome dovresti ricordartelo. Ti ricordi che la nonna ti leggeva una storia che si svolgeva proprio lì, a Verona. (Penso alla riduzione di Romeo e Giulietta firmata da Roberto Piumini)
Creatura: Una storia?
ZB: Sì. Una storia d’amore. Quella di Romeo e…
Creatura: …e?
ZB: Romeo e…
Creatura: Romeo e Duchessa!
Controllo antidoping? Fallo nel microonde!…
Controllo antidoping? Fallo nel microonde!
A volte sento la necessità di alcuni promemoria. Il seguente nasce da questa notiza qui con protagonisti miss Leslye Creighton e mr Vincent Bostic.
– Se fai il commesso in una tavola calda, quando ti chiedono “scusi, gentilmente mi scalda questo involto al microonde?", accertati prima del suo reale contenuto.
– Se per qualunque motivo devi scaldare un pene finto, il microonde non è l’idea migliore.
– Se per qualunque motivo devi superare un drug test, un pene finto e la pipì altrui non sono l’idea migliore. Meglio il vecchio trucco del palloncino. El Pibe (e con lui, una pletora di ciclisti) docet.
UPDATE: il titolo di oggi è meglio di quello di ieri (Pericolo: pene-accessorio) ma confesso che mi è stato suggerito.
Friends, vecchi e nuovi…
Friends, vecchi e nuovi
Sì, lo so. Qui ultimamente è tutto un po’ trascurato e pieno di erbacce. Ma che ci volete fare? Ho un’età ormai, tengo famiglia e sempre meno tempo per questo posto.
Oggi segnalo tre persone in rete.
Fugaz perché con lui condivido molte cose. In passato un lavoro, nel presente alcune torbide passioni (Zappa, Zorn, certo jazz avanguardistico), la curiosità per la rete, una certa prospettiva nella misura in cui abbiamo sane convergenze parallele del preambolo insomma. In futuro presto con lui dividerò un letto. O meglio una stanza. A Paris. Da dove finalmente il ragazzo blogga. Di un po’ di tutto come è bene che sia. E di ristoranti che yum, ho detto.
A proposito di cibo. Mi inchino alla gentilezza di cuocapetulante che mi ha segnalato al Blogday mentre io ero sui monti e probabilmente vivevo un polentaday o un knoedelday. Se andate a leggere cuocapetulante, sappiate che come minimo potrebbe venirvi un sano appetito. E potreste pure essere presi dalla tentazione, che so, di farvi il dado in casa.
C’era un ragazzo che come me amava i drawbar e il piano jazz. I drawbar sono quei "tiranti" dell’organo hammond che cambiano e miscelano i timbri. L’organo hammond è… vabbè dai mica ti posso raccontare tutto no? Beccati un’enciclopedia. Ok il ragazzo si chiama Stefano Intelisano. Un giorno ha scelto di amare di più il drawbar. Il giorno dopo ha preso l’aereo, destinazione Texas. Da 5 anni vive lì e suona campando e campa suonando. E come tutti i giovani USA non ha un blog ma un suo myspace, tastineri. In cui lo potete ascoltare e pure vedere suonare. E se la musica poco vi interessa, potete verificare la sua somiglianza, almeno in alcune foto, almeno secondo me, con un noto figaccione hollywoodiano.
Oggi mi sento uno splendido (?) quasi…
Oggi mi sento uno splendido (?) quasi quarantenne, eccheccazzo
A che età noi uomini siamo legittimati a barare sugli anni?
Papillon a pois, fortunato chi ce l’ha…
Papillon a pois, fortunato chi ce l’ha
Soundtrack immaginario: Farfalle, Domenico Modugno.